L’estate ormai stava finendo. Quelle ultime sere assolate e ancora calde del Settembre di undici anni fa, le trascorrevo in piazza con gli amici a ridere, scherzare, giocare.
Un giorno come gli altri, mentre tornavo a casa, sentì dei guaiti provenire da un cassonetto della spazzatura. Non ci pensai un attimo e in barba a tutte le norme igieniche, in men che non si dica mi ci tuffai dentro. Spostai alcuni bustoni, quando mi accorsi di un sacchetto blu, annodato in cima, che si muoveva. Lo aprii, lì dentro, impaziente di vedere cosa potesse contenere. Al suo interno guaivano disperati quattro piccoli cagnolini, due neri chiazzati di bianco e due nocciola. Ce li distribuimmo e quattro di noi li portarono a casa. Per primo scelsi una delle due femminucce nocciola, che chiamai Laika.
Fin da quando ero bambino ho intrapreso mille lotte con i miei genitori perché desideravo un cagnolino, ma mia madre si è sempre opposta fermamente. Sporca, perde i peli, limita la libertà di andare in vacanza, scava in giardino, ogni volta tremila scuse. Quella sera però, quando mi vide tornare a casa con quella bestiola dagli occhietti ancora chiusi, non mi disse niente. Ogni tre/quattro ore, notte compresa, la nutrivo con un pò di latte. Di giorno mi dava il cambio mia sorella, quando andavo a scuola passava a darle da mangiare mia zia. Tre giorni dopo, il più piccolo dei i quattro cagnolini morì. Io avevo letto mille articoli su internet, sul cibo adatto ai cani così piccoli, sulle condizioni migliori per prendersene cura, perfino sul modo in cui la madre stimolava la regolarità intestinale e per forza di cose in quel momento avrei dovuto farlo io. Cinque giorni dopo morì anche il cagnolino che teneva la mia vicina di casa. A me cominciava a venire un po’ di paura, ma la mia Laika pareva stesse bene. Sei giorni dopo anche la penultima bestiola rimasta in vita levò le tende. Il giorno seguente, dopo ore di strazianti guaiti anche Laika morì.
Letteralmente disperato, piansi per ore. La tumulai di fronte a casa e per tutti i giorni seguenti non mancai di strappare fiori dal giardino e metterli sulla “tomba”.
Fu quel comportamento che fece scattare qualcosa in mia madre. Qualche tempo dopo, tornò a casa con uno scatolone in mano, non troppo convinta lo lasciò davanti alla porta di ingresso e mi spedì a guardarci dentro.
Un cucciolo, non ci potevo credere, mia madre aveva portato un cucciolo. Una palla di pelo dalla quale spuntavano due occhietti neri, piccolo, tenero, tutto da coccolare.
Lo chiamai Lucky, fortunato. Perché per fare breccia nel cuore di mia madre aveva avuto una botta di culo paurosa.
Quando lo portavo a spasso (in braccio, era talmente piccolo che per fare 500 metri ci avrei messo ore) tantissime persone mi bloccavano per strada perché volevano accarezzarlo. A me dispiaceva anche andare a scuola perché per cinque ore non avrei potuto vederlo.
In questi undici anni me ne ha fatte passare davvero tante. La prima volta che trovò il cancello aperto e sgattaiolò fuori rimasi in pena per una sera intera. Avevo paura che lo investissero, che non trovasse la strada di casa, che lo rapissero, ma fortunatamente ogni volta che succedeva ritornava a casa. Tanto che alla fine ci convincemmo a lasciarlo vagare per gli affari suoi. Finché non investirono e uccisero il cane del vicino, allora decidemmo che la strada era diventata troppo pericolosa.
La cosa che adoro di lui è che ha undici anni, un’età di tutto rispetto, ma mentalmente è rimasto sempre un cucciolo. Non ha mai smesso di giocare, vive praticamente in simbiosi col suo pallone rosso da una vita e non manca mai di portarlo ai piedi di chiunque gli si avvicini. E’ pure più bravo di me quando si tratta di scartare.
Ogni tanto, vista l’età penso a quando non ci sarà più. Ma oggi non mi pare proprio il caso di lasciarsi andare a pensieri tristi.
Buon compleanno Lucky.
Gigi