venerdì 12 agosto 2011

Stelle Cadenti.


Avevo 16 anni. Sopra la mia testa un cielo nero punteggiato di stelle. Stavo supino, sull’erba nel cortile della mia casa, aspettando che la prima stella cadente mi sfrecciasse davanti. Il silenzio della notte, a quell’età, è una lama a doppio taglio. La notte non giudica; culla i tuoi pensieri sulla fresca brezza d’Agosto. La notte non fa mai mancare un rifugio a chi di giorno rifugge la realtà. Ma tra le zanzare e il gracidare delle rane, usufruire di quella tranquillità, significava fare i conti con sé stessi.
Avevo bisogno di quegli improvvisi bagliori di luce nel cielo. Avevo bisogno di credere in qualcosa che mi avrebbe stravolto l’esistenza, come volevo io. Non volevo più essere gay. Non desideravo più una vita fatta di solitudine e dolore. Volevo ritornare normale, come pochi anni prima, quando la felicità non aveva sesso. Volevo guarire da quella terribile malattia che la natura mi aveva inflitto. Ricordo ancora, mentre le lacrime solcavano il mio viso, che il pensiero costante era solo uno:

"Dio ti prego, fammi ritornare normale”.

Avevo 18 anni. Il prato era sempre lo stesso, ma la visuale era un po’ ridotta a causa degli alberi che rigogliosi crescevano nel cortile. Quello con le stelle cadenti è sempre stato un appuntamento fisso. Una delle poche occasioni in cui mi illudevo di poter sovvertire l’ordine naturale delle cose. Le rane nel frattempo avevano smesso di gracidare. La crescita edilizia di quegli anni aveva irrimediabilmente danneggiato il loro habitat. Le domande che ponevo a me stesso erano forse l’unica cosa che non accennava a cambiare nel tempo. Perché io? Perché non posso chiudere gli occhi e svegliarmi come il mio migliore amico? Perché non posso scambiare questo dolore con la felicità di qualcun altro? Dicevo a me stesso che mai nella vita avrei accettato quella dura realtà. Meglio la morte che una vita passata in solitudine a fingere di essere chi non sarei mai potuto diventare. Passavano le stelle cadenti e il desiderio cambiava:

“Dio ti prego, se non puoi farmi ritornare normale, poni fine alle mie sofferenze”.

Avevo 20 anni. L’impatto con la città più grande della Sardegna mi aveva iniettato una buona dose di speranza. Per le vacanze estive, tuttavia, potevo ritornare a casa. Una linea di cemento aveva diviso il prato di casa in due parti uguali. Stavo esattamente a metà. Si faceva largo a poco a poco la consapevolezza che prima o poi la parte di me che ancora detestavo avrebbe preso il sopravvento. Avevo smesso di ignorarla, di fare finta che non esistesse. Avevo smesso di combatterla. Guardavo le stelle e pensavo:

"Dio ti prego, aiutami a convivere con questo fardello, non lasciarmi da solo”.

A 22 anni preferivo guardare le stelle fuori dal prato di casa. C’erano stati nel frattempo tanti cambiamenti. Il duro percorso dell’accettazione, almeno con me stesso, era quasi giunto al termine. Non avevo più paura di restare solo per sempre e di dover vivere una vita di finzione. I pianti in solitudine sotto le coperte erano cessati. Idealmente sapevo che c’erano tantissimi ragazzi che come me soffrivano. Sapevo che almeno un pochino, qualcuno, mi faceva compagnia. Anche se non sapevo dove.
Guardando il cielo chiedevo:

"Dio ti prego, fa che possa incontrare un ragazzo che mi ami, che amo e che riesca a mettere su famiglia”.

Ora, a 25 anni, mi sono rimaste ben poche cose da chiedere alle stelle. Da quando ho conosciuto Andrea, posso dire di essere finalmente felice.

Gigi

3 commenti:

Anonimo 12 agosto 2011 alle ore 21:16  

però continuerei a pregare: Dio, ti prego, ora che ho trovato l'amore fa che smetta di masturbarmi ancora!!!

OT ma come cazz fai a ricordarti tutto ed a scriver così bene? Mi sa che sei un potenziale vincitore del Premio StregaGay 2012

-IlDave- 13 agosto 2011 alle ore 09:49  

Io e Ben eravamo insieme e ci siamo dimenticati di guardare le stelle :( che due idioti :P

Gianpaolo 4 settembre 2011 alle ore 20:28  

ma che bel post che mi ero perso! *_*
complimenti Gigi ;-)

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